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II brontese
maritava la figliola, ch'era lunga e dritta come una pala di forno. Ma arrivati
alla chiesa, la zita non poteva passare, che la porta era bassa; e non sapevan come fare col corteo dietro che s'affollava e il
prete dentro con la stola addosso che faceva prescia.
— Largo, signori miei! — gridò il brontese — che prima deve passare la figlia! — e lui stesso la spingeva perché passasse, ma le restava tutta la testa di fuori, lunga e stecchita come avesse inghiottito uno spiedo.
Allora, chi voleva buttare giù il
cornicione, chi sbassare lo scalino, chi tagliare la testa alla zita e
riappiccicargliela dentro; ma non facevano nulla.
In quella, si trovò a passare l'adernese ch'era a Bronte per gli
affari suoi, e sentita la cosa si fece avanti:
— Che mi date, se la faccio passare
io? E il padre:
— Se la fai passare, quattro montoni
ti do, quattro pecorelle, quattro forme di cacio, e quattro pezze di ricotta ti
do, e tu fammi passare la figlia!
L'adernese
alzò il braccio e lasciò cadere come venne una manata sul collo alla zita:
quella calò la testa e passò.
— Bravo l'adernese! — gridarono tutti — che ha fatto passare la lunga
senza tagliargli la testa.
Un dì l'aidonese
litigò col proprio asino, che non voleva saltare un fosso; e poiché quello
inarcandosi gli parava la testa, egli accettò la sfida e la fecero a testate.
Dai tu che do io, la battaglia durò a lungo, e infine l'asino dovette dichiararsi vinto.
— Ah,
minchione! — gridò ansante l'aidonese, tastandosi la
zucca — tu puoi vincermi benissimo per giudizio, ma in quanto a testa non me la
fai: l'ho più dura della tua.
Una volta il barrafranchese se n'era ito a caccia, col trombone alla sgherra;
e dopo lungo girare per monti e per valli capitò sotto una ficaia
mora, vasta e frondosa; e c'era in cima nel folto un fico come una melanzana.
Al muovere delle foglie pareva che
quello spiccasse il volo come una merla, e quindi ristava; e poi daccapo,
sicché si vedeva e svedeva, senza mai si svelasse del
tutto.
Col batticuore, il barrafranchese
spianò l'arma; ma non essendone mai certo, prima gridò:
— O tu, sei tu fico o se' merla, che tiro o non tiro?
E quello zitto. E lui, più forte:
— O tu, ti dico, sei tu fico o se' merla, che tiro o non tiro?
E quello zitto.
Allora il barrafrancese
chiuse gli occhi, e premendo il grilletto gridò:
—
O fico o merla, tìrritùmpete
'n terra! E della trombonata rintronò la valle.
II prizzitano,
non sapendo come sbarcare il lunario a casa sua, se n'andò fuori via, di là
dal mare; ma vedendo ch'era peggio di prima, pensò di tornare, e per pietà
s'ebbe un posto sur un naviglio.
Il viaggio era lungo, e il tempo nemico; e lui poveretto all'acqua e al vento intirizziva come una foglia. Or finalmente una notte che il freddo era più crudo, avvistarono la costa, e la lanterna del molo lungi ardeva come un braciere.
— Ah — esclamò egli allora, stendendo le mani di là per scaldarsi — ora sì che a questo
fuoco mi sento ricreare!
Tant'era ladro il licodiano che, non avendo a chi rubare, rubava a sé stesso, e a chi non aveva nulla rubava la vista degli occhi, mettendoglisi avanti.
Or pentitosi della sua vita, andò a
confessarsi; e compunto e contrito snocciolava tutte le sue prodezze, che non
finivano più.
Arrivati alla fine, il prete alzò la
mano per assolverlo, e in quella lui, che gliela adocchiava sin dal principio,
gli tolse lesto la stola di dosso, e se la ficcò in tasca.
E prima d'andarsene;
—
O della stola non m'assolvete?
I due mazzarinesi
badavano all'orto, e il pa' riposava al pagliaio. Or
uno della partita contava a voce forte i cocomeri da portare in piazza; e
l'altro:
— O Pe' — gli gridò a un punto — mentr'hai la bocca aperta,
chiama il pa'!
Una volta il siciliano, non sapendo più come sbarcare la vita in Sicilia, lasciata la moglie, passò lo stretto e se ne andò in Calabria da un suo compare.
Mino Maccari |
Il calabrese l'accolse a braccia aperte, e con lui divise casa e tavola, e gli trovò da lavorare con l'accetta e con la vanga.
— Compare mio — gli diceva sempre — non dovete aver soggezione con noi, e tutto quello che volete, domandatemelo; che da noi si usa spartire fin il letto con il proprio compare.
Il siciliano lavorava, mangiava e dormiva; ma molto non passò che si fece venire la malinconia, e quando vedeva il compare voltava gli occhi dall'altra parte e si tappava la bocca per non parlargli.
Il calabrese non sapeva più che domandargli, e che inventare per farlo contento:
— Compare mio, o che avete? Perché non me lo dite, ch'io ve lo fo?
Il siciliano si voltava dall'altra parte senza ri-spondergli nulla, e poi masticava per conto suo.
E il calabrese:
— Compare, o che vi ho fatto, per la grazia di Dio?
Tanto glielo disse: — che vi ho fatto, che vi ho fatto? — che il siciliano gliela cantò:
— Bel ricetto che mi avete dato, compare mio! Vi ringrazio davvero! Se foste venuto voi in Sicilia,
io sì che l'avrei fatto il mio dovere; e tutto avrei diviso con voi, senza lasciarvi a digiuno di nulla. Questo non me l'aspettavo da voi, che mi dite sempre: — da noi si usa spartire fin il letto col proprio compare! — e intanto vostra moglie ch'è bella e fresca ve la tenete tutta per voi, e per me non ne serbate neppure una parte e una briciola. Bella cortesia che m'avete fatta! Se foste venuto laggiù, prima del pane avrei diviso con voi mia moglie, che soltanto così si fa onore al proprio compare.
E il calabrese:
Salvatore Fiume |
— E perché non me l'avete detto prima, compare mio? Io non sapevo che così si usa dalle parti vostre, e mi dovete scusare per la grazia di Dio! Se ho diviso il pane con voi, divido anche mia moglie che è più dolce del pane. E poiché da voi si usa così, verrò anch'io in Sicilia per gustare la vostra.
— 'Gnorsì, compare mio; ma prima cominciamo di qua, che soltanto si rende ciò che si riceve.
La notte il calabrese uscì fuori, e il siciliano entrò nel letto ch'era tutto caldo e soffice, e non perdette un solo minuto di tempo, e la donna andava facendo:
— Se in Sicilia si usa così, sia lodato mio marito che me l'ha detto! Compare mio, datemi abento, per la grazia di Dio!
Cosi stettero tutt'e tre felici e contenti, ma il calabrese ogni tanto si lamentava che non trovava mai largo nel letto, e il compare non gli lasciava più niente di sua moglie.
— Non ci pensate — faceva il siciliano — quando verrete voi a casa mia, farete lo stesso con me, e nel mio letto ci starete voi.
Il calabrese dunque lasciava fare di buon animo, pensando di rifarsene con la moglie del compare; ma passa ora passa poi, perdette la pazienza, che il siciliano lo portava per le lunghe e non voleva mai passare lo stretto.
— Sentite, compare mio — gli disse un giorno — non è questo il modo dì mancare ai patti. Andiamo a casa vostra, per la grazia di Dio! se no, non vi so dire come finisce.
E la moglie, anche lei:
— Giusto è che ve lo portiate; se avete gustato me, voi fategli gustare la vostra, e poi tornate ancora, ch'io ne ho sempre per tutt'e due.
Nicolò D’Alessandro |
Così il siciliano non poté più farne a meno, e partì col compare per il suo paese, e non so dirvi come gli facesse il cuore al pensare ciò che avrebbe detto sua moglie. Come giunsero, sì chiamò quella in disparte, che non sapeva più che feste fare, e buttandosele ai piedi le narrò il fatto e il patto; come il compare era venuto con lui per avere la sua parte, e che quindi pensasse lei a trarsi d'impaccio.
Quella non si spaurì, che modi non le erano mai mancati per gabbare i santi, e lieto viso fece al calabrese, e lo cibava e gli girava intorno come un fuso. Come fu notte, prese che aveva una riccia, la scuoiò e se ne mise la pelle davanti, e col calabrese se ne andò a letto, tutto vezzeggiandolo.
Al buio, quegli partì infuriato, ma saltò dieci palmi in aria, gridando:
— O che avete che voi pugnete?
— Nulla, compare mio, che tutte cosi siamo noi siciliane — e lo tirava a sé perché ritentasse la prova.
Ma quegli scappò via, ed era già in Calabria, che gridava ancora:
— Me', come pugne la siciliana!