MIMI CAROPIPANI

 

 

La caropipana

 

La caropipana aveva un petto quanto l’altar maggiore, e ogni minna come una ciaramella, che riempiva la casa e ci poteva allattare una pariglia di ciuchi.

            Or quando trovò il figliuolino, bello pasciuto come un angiolo, dinnanzi a tutti nella strada, in chiesa o alla piazza, tirava fuori quell’abbeveratoio col cannello, che pareva il mondo che ha Gesù Bambino nella mano, e glielo dava a succhiare. Le donne a farsi la croce, e gli uomini che se la godevano, a mirar quella grazia di Dio che faceva venir la tentazione. Quella, fresca senza rossore, come facesse vedere una zucca o non fosse carne sua.

            Sua ma’ non ne poteva più, e una volta che la metteva tutta fuori, la benedica, gli disse:

    - Ma che pulizia è cotesta, di sbattere la minna sul muso a chi non vuole, che pare una bótte? Non lo sai come si dà, con grazia e decoro, che basta metterne fuori un pezzettino e sopra la mano a coprirla?

            E quella, come una rosa:

- O che fa, me la rubano? Sempre mia resta.

 (Mimi siciliani, Milano, 1928)

 

 

 

 

I ferri ai piedi

 

Due caropipani, di professione ladri, pensarono di morire; e buttatisi sul letto non davan più segno di vita. Gettaron loro le strida, li vestirono, li misero nel cataletto e li portarono per morti in chiesa. Ma la notte, quelli buttarono all’aria i coperchi, e più vivi di prima si diedero a saccheggiare ogni cosa e rotte le sbarre scapparono via per le lunette. La mattina, aperta la chiesa, non si trovarono più i morti né le cose di prezzo, e lo scandalo fu grande.

- Qua bisogna provvedere - gridarono i gabbati - ché i morti non son morti e fan cose vivi; - e radunato in fretta il consiglio, dopo molto sputare fu finalmente gettato a suon di tamburi e trombe questo bando:

 - Caropipani, da oggi in poi, chi vuol morire ha da pensarci due volte; e chi non è sicuro d’esser morto non muoia, ché quelli che son tali verran ferrati ai piedi come muli!

E d’allora in poi, così fecero; e di caropipani non morì più alcuno che non fosse veramente morto.

(Mimi siciliani, Milano, 1928)

 

 

 

 

L’asino tramutato

 

Due caropipani, di professione ladri, battevano le strade e le campagne. Or un giorno prima di giungere a Piazza, videro avanti un canonico, che lemme lemme si tirava dietro un bell’asino bigio. Un d’essi allora tolse pian piano la cavezza alla bestia e se la mise lui al collo; e l’altro pensò al resto.

Dopo un bel pezzo, giunto a un monticello di pie­tre, il canonico vi si pose per montare a cavallo, e distratto com’era, alzava già l’anca; ma dallo spa­vento restò così a mezz’aria, e non sapeva che dire e che fare.

E quello:

- Ah, birbante! tu dunque credevi di potermi cavalcare impunemente per tutta la vita? Finora è toccato a me, ma venuta è la tua ora. D’asino io sono tramutato in uomo, d’uomo tu sarai tramutato in asino perché così vuole nostro Signore Gesù Cristo; e s’io fui bigio, tu sarai morello. Suvvia, lascia la corda, ch’io ti voglio mettere la cavezza!

Ma non aveva ancora finito, che il canonico, con la tunica alzata fino al bellico, era giunto a Piazza gridando al miracolo.

E il caropipano ci guadagnò anche la cavezza.

(Mimi siciliani, Milano, 1928)

 

 

 

 

Il piazzese

 

Una volta, andando il caropipano a Piazza incon­trò alla Bellia il piazzese, che a cavalcioni di un grosso ramo di pioppo dava giù botte da orbo con l’accetta per tagliarlo.

- O che fate? - gli domandò.

E quello:

- Non vedete che fo? taglio il ramo, che mi serve.

- O come? e se casca quello, non cascate anche voi?

- Cascate voi invece - fece l’altro stizzito - che siete cristiano, e non io che sono piazzese.

Ma non aveva dati altri due colpi che il ramo crollò e lui insieme, che restò a terra come il piazzese che era.

(Mimi siciliani, Milano, 1928)

 

 

 

 

La croce

 

Il caropipano se ne andò a Piazza a trovare il compare e la comare, che non vedeva da molto tem­po. Gli fecero grandi feste, e non sapevano più che dirgli, fargli e contargli, tutt’e due sempre intorno come due fusi, e la moglie più del marito.

Nel mentre cominciò a piovere a diluvio, e i lampi e i tuoni uno andava e l’altro veniva. Si fece notte, e il tempo non accennava a finire; e il caropipano per non dar loro fastidio voleva andarsene lo stesso.

- Oh che siete pazzo - lo redarguì il piazzese - con quest’acqua che pare l’universale? Restate qua con noi.

- O come resto che siete stretti?

- Se siamo stretti, ci stringiamo di più. Ma non vedete che il letto è grande come un’aia? Voi vi met­tete al muro, mia moglie nel mezzo e io davanti.

Così fecero. Spensero la lumera e si misero a letto; e il piazzese ch’era furbo, per paura che il com­pare non gliela facesse a tradimento con la moglie, ci mise davanti la mano a riparare l’entrata; e il caropipano sentito l’ostacolo ci si rodeva.

Or mentre stavano così, un gran lampo dalla fi­nestra saettò la camera. Nel soprassalto, il piazzese atterrito levò la mano di là per farsi la croce; e in quella, sgombro il terreno, l’altro saltò addosso alla donna, senza fallare di tanto.

All’amen il piazzese tornò con la mano a difen­dere il luogo di prima, ma ci trovò invece il com­pare; e meravigliato della prontezza, faceva, aspet­tando che quello finisse:

- Ahbo’, compare mio, manco il tempo di farmi la croce mi date?

(Mimi siciliani, Milano, 1928)